GIUSEPPE (BEPI) TORRESIN
6.7. 1924 – 6.5. 2004

di Ole Thomsen

 

Per quattro decenni Bepi ha servito gli studi classici in Danimarca, nell’università e nella scuola. Giunse qui per la prima volta nel 1948, entrando presto in confidenza con il gruppo formatosi attorno a Carsten Høeg, uno dei due professori di filologia classica a Copenaghen: la vitalità del suo conservatorismo culturale attirava Bepi, socialista italiano. Ritornò come lettore di scambio d’italiano nel 1962, e quindi nel 1968 entrò a far parte dell’Istituto di studi antichi e medievali dell’Università di Århus.

Mediante Bepi non potemmo evitare di essere sfiorati dai suoi grandi maestri, Giorgio Pasquali ed Eduard Fraenkel. Pasquali, ho letto da qualche parte, era “sempre irrequieto, spesso bizzarro”; di lui Bepi metteva in risalto da una parte la personalità vigorosa, curiosa, onnivora, esuberante, dall’altra il suo alessandrinismo, il suo senso raffinato per quel di soggettivo, di ricerca interiore, di patetico-ironico, di indefinibile che è proprio della poesia ellenistica, con tutta la sua rete di riferimenti interni, la sua arte allusiva. Bepi apprezzava la lingua e lo stile di Pasquali nelle Pagine stravaganti di un filologo, questa enorme raccolta di articoli (gli articoli vanno originariamente dal 1933 al 1951). Per chi si sofferma a studiare le questioni e i temi ricorrenti di questo libro – “un libro di politica culturale e scolastica” – si delinea allora l’immagine di Bepi come di un devoto, e quindi indipendente, pasqualiano. E così si vedeva probabilmente lui stesso.

Fraenkel, al contrario di Pasquali, non era per niente amico dei poeti alessandrini: trovava che buona parte di questo mondo, figlio di un’età invecchiata, fosse “morbido” (“vuole dire morboso”, si dicevano a bassa voce gli studenti pisani). Di quest’ebreo berlinese in esilio Bepi descriveva con grande tenerezza il modo di portare il suo braccio appassito. Metteva in risalto il tormentoso nervosismo di Fraenkel prima di ogni lezione, anche della più facile, la sua rude mancanza di riguardi per brevi momenti durante la lezione, il suo sconfinato appetito per il dialogo nell’interpretazione dei testi nei seminari per i prescelti, insomma una geniale personalità, di cui i suoi libri (per esempio il libro su Orazio) secondo Bepi non ci danno che un pallido riflesso.

Un discepolo di Fraenkel e di Pasquali difficilmente si accontenta. In tal modo era un problema per Bepi che influenti professori si aggirino per la facoltà spacciandosi come nostri amici, mentre sostengono che naturalmente la filologia classica già da tempo è stata catalogata in modo esaustivo, visto che tutti i materiali si trovano appunto splendidamente ordinati nelle imponenti enciclopedie filologiche, che basta tirar fuori dagli scaffali. Era anche un problema che Keld Zeruneith, che con il suo Cavallo di legno è riuscito a scrivere in danese un libro che affascina così tanti lettori, che “effettivamente” (avrebbe detto Bepi) affascina così tanti lettori, sul piano degli studi classici sia un dilettante presuntuoso.

Queste cose le commentava, e gli rodevano dentro. Fino a poche ore prima della morte Bepi ardeva per il futuro degli studi classici. “Studi classici” nel senso più ampio del termine! Quanti hanno parlato con lui della sua malattia e gli hanno fatto visita in ospedale l’hanno sentito esprimersi con foga contro il medico sfuggente, che “era diventato primario a furia di sorridere”, alla ricerca invece di “medici che sanno il latino e il greco”. Che cosa intendeva Bepi in concreto con un requisito del genere? Che veramente intendesse qualcosa di preciso non c’è alcun dubbio, dato che ci si trovava al suo capezzale di malato! In generale, troppo raramente gli abbiamo chiesto quale fosse il senso concreto di tutte le sue affermazioni fiorite; ed anche qui non sono in grado di far altro che di disegnare a mano libera. Uno che conosce il latino e il greco: non significava per Bepi soprattutto la conoscenza delle due lingue. Un medico che conosce il latino e il greco: è uno che ascolta i problemi, i problemi effettivi, fattuali (“faktisk” era una parola di alta frequenza nel suo lessico). Una persona che conosce il latino e il greco: è uno che nella sua vita ha sperimentato il conforto degli studi, consolatio studiorum.

L’Università di Aarhus non avrebbe potuto mai avere un frequentatore d’istituto più presente di Bepi, nessuno che fosse più generoso del suo tempo, più generoso di consigli e di aiuto concreto, moralmente e materialmente. Bepi era a disposizione, Bepi præsto erat. E se il criterio di base è presenza, intensità, voglia di influenzare con scintille che si propaghino, allora bisogna dire che Bepi ha servito la facoltà umanistica non solo per quattro decenni, ma per dieci volte quattro.

In Johan Ludvig Heiberg, a nome degli antichi greci, Aristofane (in Un’anima dopo la morte, del 1840) pone questa domanda all’uomo d’oggi: “Puoi scrivere, puoi parlare in vece nostra?”. Finché Bepi fu in vita si poteva rispondere di si a questa domanda; avevamo uno che poteva battersi per loro, per i greci e per i romani.

Non era la struttura essenziale e neanche la messa a fuoco costante a caratterizzare le lezioni di Bepi e le sue conferenze. A questo scopo sapeva troppo. Si, i riferimenti bibliografici lo inseguivano fino a casa, sia quelli agli autori antichi che ai loro interpreti moderni. Incessabilmente.

Sia come ricercatore che come conferenziere Bepi giunse a non vedere altro che i “problemi aperti”, e “incessante” diventò una delle sue parole preferite. Le sue simpatie andavano a pubblicazioni del tipo “studi e materiali”. Era affascinato dalle “divagazioni”, gli articoli eruditi infarciti di note e che si permettono di esplorare anche le vie laterali, estravaganti nel significato etimologico della parola: che vagano al di fuori. Era convinto della grande importanza che venissero continuamente pubblicati libri in danese su argomenti dell’antichità.

Per quanti l’hanno conosciuto soltanto come un’autorità inflessibile e allo stesso tempo festosa o, in seguito, come simpatico “pensionær” (“vuole dire pensionist”, si dicevano a bassa voce gli studenti di Århus), può essere il caso di ricordare che non gli furono risparmiate delle serie situazioni di crisi nel corso della sua carriera, sia in Italia che qui. Bepi aveva insegnato all’Istituto di studi antichi e medievali per un buon numero di anni, senza però contribuire in modo marcante al numero di pubblicazioni prodotte dall’istituto, e ad un certo punto il pericolo di perdere il posto si fece incombente; dal punto di vista del sistema lui era appunto uno di quei ricercatori da nulla da cui un’università moderna e ben gestita deve separarsi. Bisogna rendere onore a Otto Steen Due, che all’epoca era direttore dell’istituto, per aver rifiutato assolutamente di far misurare Bepi con il metro del sistema. Otto Steen Due trovò anche la formula assolutoria, questa appunto: “Giuseppe Torresin produce attraverso i suoi allievi”. E allora non si è davvero un ricercatore da poco! Speriamo che una formula del genere riesca ancora oggi, un quarto di secolo dopo, ad impressionare il sistema, se da qualche parte si trova uno spirito maieutico che meriti di essere salvato.

Dopo di allora è apparsa fortunatamente una serie di pubblicazioni – ora non più solo da parte dei suoi allievi, ma anche direttamente suoi. Qui va ricordato il suo fine Homer nella serie di pubblicazioni dell’Associazione Danese di Studi Classici, nel 1989, e la sua acuta e amorevole analisi della lettera di Fedra in Ovidio (la quarta delle Eroidi), pubblicata su Classica et Mediaevalia nel 1998, con ampi richiami ai due drammi di Ippolito in Euripide. E quest’ultimo aspetto, che vi si trattasse anche Euripide, Bepi lo sottolineò con una certa enfasi nel nostro ultimo incontro; Bepi filologo aveva piacere che ce ne ricordassimo nei nostri prossimi studi.

Come ricercatore filologico-storico nutriva uno scetticismo profondo e di principio riguardo ad ogni affermazione di unità, autenticità, fedeltà della tradizione manoscritta, all’ottimo stato di salute dei testi. In quanto allievo di Eduard Fraenkel era diagnostico ed analitico – ma sottolineava allo stesso tempo che i classici vanno goduti. Anche di carattere non gli era congeniale lo starsene in quiete ed il rimanersene a proprio agio – ed era però maestro nel creare e godere di un’atmosfera gradevole e un misterioso amante dell’idillio. D’altra parte, chi ha mai visto Bepi starsene seduto comodo e a lungo? Stava sempre seduto sul bordo della sedia.

Non è davvero possibile evitare di dire le cose come stanno, e cioè che l’ampiezza delle conoscenze di Bepi lo poneva tra l’elite mondiale degli studiosi. Ma a questo si aggiungeva la sua intensa presenza, assolutamente non professorale, che caratterizzava il suo insegnamento e la sua attività di guida degli studenti e di relatore. Era un sensualista, e quindi indiscreto. Gli studenti (Bepi non accettò mai di parlare de “gli studenti”, che in effetti è un termine per burocrati) sapevano che quella persona che insieme a loro leggeva Orazio aveva un fiuto infallibile per sapere con chi fosse fidanzato ciascuno di loro. A chi altri che a Bepi dei giovani avrebbero permesso di avere una tale confidenza? A lui lo permettevano volentieri, perché c’era affetto nei suoi confronti.

Sia negli anni intorno al 1968, quando era un figurino elegante, ben pettinato e profumato con discrezione, nonché fumatore accanito, che ora verso la fine, quando le sigarette erano scomparse ed i tanti chili erano subentrati al fumo, era e fu un sensualista espressivo. Ed un amante dell’opera. Dobbiamo far attenzione che la sua poderosa personalità non ci porti a trascurare che era un maestro dell’arte di rappresentare situazioni bizzarre con tratti da miniatura. Bepi coltivava la sua bizzarria, anche nel suo lavoro di insegnante. Le sue conoscenze erano pressocché universali, ma il suo tratto stilistico era la specificità del suo punto di vista portato all’estremo.

Sarebbe un understatment affermare che Bepi era vivamente attratto dalla politica; lui credeva nella politica. Non era infrequente che si vergognasse degli italiani, dei suoi connazionali. I greci li amava, anche i greci d’oggi, specialmente tutti quegli affascinanti vecchi senza denti ed i saggi che s’incontrano nei villaggi di provincia, anche se Bepi, critico di ogni ideologia, rifiutava con decisione tutte le chiacchiere infondate sull’ininterrotta continuità che legherebbe gli antichi greci a quelli di oggi. E poi amava la Danimarca e la difendeva a spada tratta. Nutriva la più profonda ammirazione per il suo Welfare attento agli aspetti culturali, quale vide svilupparsi in Scandinavia negli anni ’60 e ’70, e lo presentò agli italiani sulle riviste di sinistra. Quello che gli sembrava l’atteggiamento eternamente tiepido della Socialdemocrazia nei confronti dell’università lo irritava.

Non divenne mai noto al grande pubblico qui da noi, il che può essere imputato fra l’altro al suo terribile rapporto con la lingua danese: un rapporto che è allo stesso tempo un enigma ed una tragedia.

Nella situazione attuale dell’università danese e delle norme che ne regolano la gestione, la mentalità dominante lascia spazio ad un solo atteggiamento, vale a dire che è bene non criticare quanti dirigono l’istituzione. I dirigenti non si criticano. La convinzione di Bepi lungo tutti quegli anni fu diametralmente opposta: criticava preferibilmente proprio i dirigenti; si, li attaccava incessantemente, con nome, cognome e indirizzo.

Di queste cose parlavamo l’ultima sera, il cinque maggio, e i commenti di Bepi come al solito non mancavano di “sale e pepe”. Proprio questo era il primo precetto della sua arte retorica: ci deve essere “sale e pepe” in quello che diciamo.

Aveva la necessaria magnanimità ed obiettività per rallegrarsi del fatto che le peggiori schermaglie dell’istituto di filologia classica (di cui però a suo tempo era stato parte attiva) ormai da diversi anni fossero diventati soltanto una saga. Il mutamento era avvenuto al volgersi del millennio, ed aveva avuto il suo riconoscimento ufficiale nell’unificazione di Filologia classica e di Lingue e letterature romanze il primo agosto 2002.

Anche durante una visita che gli feci nella fase iniziale della sua malattia discutemmo di diversi problemi, ed in maniera piuttosto dettagliata (era diventato appunto il nostro confessore). A seguito di questa visita mi inviò la seguente e-mail (datata 5 marzo):

Non puoi immaginarti quanto sia stato felice della tua visita di ieri e delle tante cose che mi hai raccontato, anche se alcune sono fonte di preoccupazione. Ma sapere ciò che non fa piacere è sempre meglio di non sapere. grazie ancora grazie saluti bepi

“Ma sapere ciò che non fa piacere è sempre meglio di non sapere”... Ci immaginiamo volentieri che adesso Bepi abbia trasferito i suoi studi dal suo indirizzo di Elmsager ai Campi Elisi. Al numero 4 di Elmsager, del resto, non c’era più posto nel suo studio.

 

Ma temiamo che da parte sua ci direbbe che ad affermazioni del genere non c’è da credere e che, fedele a se stesso, sarebbe pronto a scommetterci: Non credo neanche agli dei greci (come esclamò una volta). Si sente il sale e pepe dell’amico dei greci: dovessero esistere degli dei, che almeno siano greci. Dovrebbe trattarsi di dei che, come quelli greci, sopportino di essere criticati senza pietà perfino durante i loro stessi riti, proprio come succede nelle tragedie e nelle commedie greche.

 

Una specie di credo Bepi lo pronunciò tanti anni fa durante la discussione che tenne dietro alla conferenza di un relatore di fede cattolica. La professione di fede di Bepi (“Non credo che c’è dio”), che dava un’approssimata forma danese a rivestimento di una frase pensata in italiano, risuonò di quell’enfasi che in alcuni casi felici è data dalle espressioni non propriamente corrette. Quest’aspetto probabilmente non ha subito modifiche nel corso degli anni (dico ‘probabilmente’ perché non lo so con certezza). Comunque stiano le cose, è possibile udire che dagli Elisi risuona questa domanda fino a noi: “Puoi scrivere, puoi parlare in vece nostra?”.

 

Onore alla memoria di Bepi Torresin, filologo, suscitatore di problemi, amante della vita, indimenticabile amico!

 

Ole Thomsen

Filologia classica, Università di Aarhus

oldtot@hum.au.dk